L’ipnotico “gulasch musicale” di Gábor Szabó

Va bene, lo ammetto: il primo motivo che mi ha portato ad interessarmi al musicista ungherese Gábor Szabó non aveva a che fare con la musica. Girovagando nel grande labirinto di Internet, ciò che ha attirato subito la mia attenzione di appassionata di cultura vintage sono state le affascinanti copertine dei suoi dischi. Copertine caratterizzate da quell’estetica ipnotica e sognante degli anni ’60-’70, come His Great Hits, che ritrae Gábor mentre fuma assorto una sigaretta da cui fuoriescono immagini evanescenti in cui si scorgono due profili femminili. Il suo disco più celebre, Dreams, è anche uno dei più belli della storia del jazz, e recupera le splendide illustrazioni di John Austen, artista inglese che ispirava il proprio stile raffinato e sottilmente inquietante ad Aubrey Beardsley, maestro della grafica decadentista di fine ‘800.

Ma torniamo a Gábor: la vista dei suoi bellissimi dischi non viene delusa dall’ascolto dei brani che contengono, e si può rimanere piacevolmente sorpresi dall’originalità di questo chitarrista così poco conosciuto, che fondeva jazz, tradizione ungherese, sonorità latino-americane e suggestioni orientali in un “gulasch musicale” per nulla indigesto.

Dalle pianure magiare al Nord America

Gábor Szabó – o, meglio, Szabó Gábor, come si usa in Ungheria, dove si fa precedere il cognome al nome, che tradotto in italiano suonerebbe “Gabriele Sarto” – nacque a Budapest nel 1936. Iniziò a suonare la chitarra a quattordici anni, esercitandosi ad imitare la musica americana trasmessa alla radio, suonando poi nei locali notturni della capitale magiara. A vent’anni emigrò con la propria famiglia in Austria e successivamente negli Stati Uniti, presso il campo dei rifugiati Kilmer, nel New Jersey, dove molti ungheresi trovavano asilo dopo essere fuggiti dal regime comunista che rendeva difficile la vita in patria. Gábor non abbandonò la propria passione per la musica, e riuscì a studiare alla Berklee School of Music di Boston e a collaborare con svariati gruppi jazz, dando un contributo anche alla composizione della colonna sonora del film “Repulsione” di Roman Polański.

Dopo quasi dieci anni dal suo arrivo negli Usa, fondò il “Gábor Szabó’s Quintet” e incise il suo primo disco, Gypsy 66. Accanto a brani di sua composizione, compaiono alcune cover di canzoni famose, come “Yesterday” e “If I Fell” dei Beatles, o “Walk on by” di Burt Bacharach. L’abilità di Gábor nel riproporre interessanti riletture di composizioni altrui sembrerà ritorcersi contro di lui, per ironia della sorte, negli anni successivi, quando alcuni dei suoi brani verranno resi celebri da altri musicisti, come Gypsy Queen, divenuta un cavallo di battaglia di Carlos Santana. Una sorte simile avrà Breezin’, che sarà più conosciuta nella versione di George Benson. Dopo l’album Spellbinder, molto apprezzato dalla critica, nel ’67 pubblicherà Jazz Raga, il quale si inserisce nel clima di fascinazione per le sonorità indiane che all’epoca contagiò molti musicisti occidentali, come George Harrison dei Beatles e Brian Jones dei Rolling Stones. In “Jazz Raga”, Gábor sperimentò anche il sitar, che suona nel brano “Search for Nirvana”, dal tono misticheggiante, scritto insieme alla moglie Alicia.

Gitani, incantesimi e sogni

Ci sono alcune immagini ricorrenti nella discografia di Gábor: la gitana, che si lega al mondo dell’Europa dell’Est e alla vita raminga che caratterizza il binomio libertà-precarietà tipico della condizione dell’artista, ma che richiama anche l’incantesimo, la magia, gli arcani misteri a cui ci si può avvicinare solo in sogno. Così abbiamo il già citato “Spellbinder”, che letteralmente è qualcuno o qualcosa che ti lega con un sortilegio, e The Sorcerer, lo stregone, o ancora Bacchanal, che allude agli irrazionali e frenetici culti dionisiaci, ma che contiene alcuni dei pochissimi brani che trovo talmente rilassanti da poterli usare come “oppio sonoro” per concentrarmi nello studio.

Il più interessante esperimento di questa singolare “musica onirica“, difficilmente inquadrabile in un genere definito, rimane forse Dreams, pubblicato nel 1968. Un paio di brani sono di sua composizione, come “Galatea’s Guitar”, che sembra avere quell’andamento a “flusso ininterrotto” con cui si concatenano quei sogni confusi nei quali pure ci sembra di dover trovare un senso, ma spiccano delle originali rivisitazioni di brani di Manuel de Falla, come “Fire Dance”, ispirata alla celebre “Danza ritual del fuego”.

Gábor, che suonava una chitarra acustica su cui era montato un pick-up magnetico collegato ad un amplificatore per chitarra elettrica, usava virtuosisticamente la tecnica del feed-back: si tratta del cosiddetto “effetto Larsen“, che normalmente genera quel fastidiosissimo fischio causato dall’accostamento di un microfono all’altoparlante a cui è collegato, ma che Gábor riusciva a modulare con maestria.

Le condizioni di salute di Szabó peggiorarono a fine anni ’70, e non riuscì a curare una malattia al fegato e ai reni che lo portò alla morte a neppure quarantasei anni, nel 1982. Per molti anni la musica di Gábor Szabó rimase quasi sconosciuta in Ungheria, in cui pure aveva fatto ritorno più volte. Nel 1992, un riconoscimento arrivò dalla Magyar Jazz Szövetség (Associazione Jazz Ungherese), che istituì il premio Gábor Szabó per promuovere i musicisti che valorizzano il jazz ungherese.

Ma ora lascio la parola a Gábor, sperando che un assaggio di “Dreams” possa farvi appassionare alla sua musica.

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