2020: è meglio negativo

Quando la filosofa Maura Gancitano e il suo consorte Andrea Colamedici parlano della “società della performance” in soldoni spiegano come sia cresciuta esponenzialmente la competizione tra uomini. Bisogna essere perfetti, sentirci speciali e per avere consapevolezza di valere qualcosa dobbiamo essere sopra la media, superare gli altri, dimostrare di essere “di più”. La nostra intera esistenza viene dedicata alla buona riuscita degli obiettivi che ci prefiggiamo o delle aspettative delle persone care. La vita si può paragonare ad una corsa ad ostacoli in cui si corre, si cade, ci si alza e si continua a correre e cadere fin quando non si arriva al traguardo. (Metto una pulce nell’orecchio: qual è il vero traguardo verso cui corriamo?) Ricerchiamo benessere anche a scapito degli altri e lo dobbiamo mostrare, o addirittura ostentare. Fatichiamo tanto per risultare perfetti agli occhi di tutti che a loro volta vogliono mostrarsi perfetti ai nostri occhi. È vero: “persona” deriva dal latino e significa “maschera”, ma forse abbiamo un po’ storpiato il gioco. Il gioco doveva essere quello di imitare un’altra persona, ma ai tempi di Plauto e Terenzio, le persone imitate erano vecchi scorbutici asociali e avidi. Ora invece noi mettiamo una maschera per imitare noi stessi senza alcun difetto, senza “meno”, vogliamo mostrare che siamo “più” bravi, “più” forti, “più” belli, “più” abili, “più” corretti, “più” intelligenti. Non ci sono limiti, non c’è alcun limite che l’uomo non possa superare.
E allora mi chiedo…
« Chi siamo davvero? E se la verità fosse altrove, diversa rispetto a quello che pensiamo? E se la parte autentica di ognuno di noi fosse nascosta proprio finché ci sforziamo di controllare tutto, perché ci sono tante cose da fare e non possiamo permetterci il lusso di essere, semplicemente essere, stanchi, depressi, svogliati, capricciosi, noiosi, persino sbagliati e dementi, ecco sì, questo: dementi?»
(Michela Marzano, Idda, 2019, pag. 126)

Negli ultimi mesi infatti si è presentato un esserino invisibile che è riuscito a far crollare le fondamenta dell’edificio della perfezione, abbiamo dovuto rivalutare l’idea dell’uomo invincibile, abbiamo dovuto “aggiornarci” e ri-centrarci. Il Covid ci ha messo davanti all’evidenza che la nostra esistenza ha lo stesso valore di qualsiasi essere vivente sul Mondo, ma soprattutto ci ha ricordato che abbiamo sempre intorno la morte, ma non ci piace vederlo, tantomeno parlarne.
Poniamo l’attenzione ad esempio sulla parola “Sopravissuto”: è un termine usato per chi è guarito da una malattia ad esempio, o per chi ha rischiato la morte in un evento rischioso, qualcosa di eccezionale. In questi casi quella persona è stata così vicina alla morte, ma l’ha “vinta”. Se non fosse per questi eventi singolari, la morte è qualcosa che non si nomina, che crediamo sempre non tocchi noi, come se il segreto dell’immortalità fosse non pensarci, eliminare ogni possibilità che accada, come se non fosse costitutiva essa stessa della vita. Infatti se stiamo attenti e analizziamo in modo grammaticale, il termine “sopravissuto” è un participio passato e se è passato vuol dire che è lontano. E se lontano non mi tocca. Pensiamo di essere come dei computer che progettano di “funzionare”, se attiviamo l’antivirus, se mettiamo la crema antirughe sicuramente possiamo ingannare il tempo ed essere sempre performanti allo stesso modo, sempre più belli, più giovani, più intelligenti di prima, possiamo partecipare a più corsi di aggiornamento e lavorare di più. Se togliamo la possibilità di ammalarci, di invecchiare, di “romperci” sicuramente “funzioneremo” in eterno.

Però dimentichiamo che c’è anche il participio presente del verso sopravvivere: SOPRAVVIVENTI. È vero preferiamo usare il verbo “vivere” al quale attribuiamo un’accezione anche di auto-realizzazione, ma biologicamente, dentro i nostri corpi, i nostri sistemi immunitari stanno uccidendo tantissimi enti patogeni che potenzialmente potrebbero ucciderci. Tanti NULLA, come il Covid-19. Ogni giorno, ogni ora, ogni secondo noi sopravviviamo a milioni di nulla. Attenzione: noi umani invincibili e immortali li consideriamo nulla solo perché non li vediamo, eppure possono “creare” milioni di morti proprio come è successo in altri tempi con altre malattie. Diamo per scontato che sopravviviamo. “Perchè dovrebbe accadere proprio a me?” L’esperienza del rischio della vita si è così allontana da noi che ormai non è più socialmente concepita neanche reale. Quante volte abbiamo sentito dire: “Non è vero che i migranti scappano per salvarsi la vita, vengono a cercare benessere.”

A questo punto penso a Carlo Michelstaedter (lo so che il cognome non sembra italiano, ma è Goriziano). Questo filosofo, nei suoi 23 anni, proponeva una via che chiamava PERSUASIONE in cui non si teme di morire, ma si vive con la consapevolezza della morte. È una dimensione in cui la vita e la morte co-esistono, non si sdoppiano, sono un tutt’uno. È un attimo che crea una frattura nel tempo e si ha estrema coscienza di ciò che si è: tutt’uno con le cose perché le abbiamo tutte in noi stessi e noi stessi siamo in tutte le cose. C’è compresenza, coesistenza, comprensione della morte, del meno, di ciò che si ha e di ciò in cui si manca. L’uomo deve farsi carico della propria vita, prendersi le sue responsabilità: è la via dell’impossibile, riuscire a prendere possesso di sé diventando un tutt’uno con le cose, anche quelle “meno”, meno belle, meno felici, meno facili, meno accettate, meno sicure. Ma senza maschere, più veritiero
…come la morte.

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