Scusa, quanto costa? (pt. 1)

Ungaretti e il materialismo contemporaneo

di Beatrice Archini

In una società come la nostra, l’uomo si prostra al denaro e si sente assoluto e unico padrone di se stesso e del mondo; in una società come la nostra, basta il denaro. Sembra bastare il denaro. E così, l’uomo sfrutta, l’uomo inganna, l’uomo abusa. Sembra bastare il denaro.

Eppure, persino in una società come la nostra, in cui con il denaro sembra si possa avere tutto, solo una cosa rimane dal valore inestimabile.

L’umanità: l’insieme di tutte quelle caratteristiche che fanno sì che un uomo possa davvero definirsi tale; amore, empatia, quella fratellanza che ci spinge ad abbassare lo sguardo davanti a qualcuno che soffre, ma soprattutto che ci induce a cercare di vedere in quel qualcuno l’ombra di un sorriso, almeno. La poesia: la grandezza di un uomo che facendosi autore decide di spogliarsi, di mettersi a nudo e andare alla ricerca della vera essenza dell’uomo lì, fino alle ossa. Così, Ungaretti.

Giuseppe Ungaretti è uno dei nostri grandi “poeti di guerra”. Egli stesso scrive di essere diventato un poeta sul campo di battaglia: siamo in trincea e ogni secondo che spendiamo a sopravvivere è una benedizione… perché scrivere? Come, dove… perché poetare in un momento in cui la propria casa diventa una fossa scavata nell’arida terra per centinaia di chilometri, in un momento in cui la fame ci divora lo stomaco, come i topi, e siamo massacrati dall’odore… dall’odore di morte che non scompare, indelebilmente stampato sui vestiti, sui volti, nella carne. La risposta è, ovviamente, per risentirsi umani, per riscoprire l’umanità in una guerra che sembra lacerare i valori dell’uomo stesso.

Alessandria d’Egitto: una città economicamente e socialmente attiva, punto di interscambio tra culture diverse dove la miseria degli arabi si contrappone alle fortune di alcuni europei; qui nasce il nostro poeta, l’8 febbraio del 1888 (denunciato all’anagrafe il 10 dello stesso anno), da genitori lucchesi trasferitisi in Egitto per lavorare alla costruzione del Canale di Suez. Fino ai 24 anni, egli non ha idea di che cosa sia, per esempio, la montagna o l’architettura; non ha il senso che quest’ultima e il paesaggio possano avere una stratificazione storica che via via trascina la società avanti nei secoli, lasciando sulla strada i simulacri del passato. Ad Alessandria, la sabbia crea e distrugge senza tregua. L’idea dell’Italia appare quindi ad Ungaretti come una Terra Promessa, come una di quelle meravigliose allucinazioni che si possono provare nella secchezza del deserto: lì, le città ostentano il loro grande passato attraverso chiese, piazze e palazzi.

Egli si accorge, giovane, di essere uno sradicato, di non avere patria: “In nessuna parte di terra / mi posso / accasare”; eppure, non riuscirà mai a dimenticare la sua terra natale: “La delusione che tu sia, straniera / La mia città natale”.

Sentirà una forte attrazione per un’eventuale patria adottiva (la Francia) ed avrà con il suo vero paese (l’Italia) un rapporto difficile, poiché non sentirà mai l’immenso amore per lei pienamente ricambiato.

Morto presto il padre, l’attività del forno gestita dalla madre ai confini con il deserto gli permette di studiare prima all’Istituto Don Bosco, poi all’École Suisse Jacot, la migliore scuola d’Alessandria, dove professori aggiornati e preparati gli parlano dei nuovi autori francesi; tra i suoi primi amori letterari troviamo Leopardi, Baudelaire e Nietzsche. Proprio qui nasce la profonda e sincera amicizia con Moammed Sceab, compagno di scuola.

Iniziando a scrivere versi solo a ventisei anni, egli non deve fare i conti con nessuno dei poeti d’obbligo, come d’Annunzio e Pascoli. Egli sceglie, come già detto, gli autori di cui si innamora: nei primi versi, egli riuscirà a saltare tutto quanto era accaduto tra Leopardi e la Grande guerra, non avendo, infatti, legami da sciogliere o influenze da nascondere o correggere.

Ideologicamente manifesta subito una grande passione sociale: la società in cui vive, le differenze, le ingiustizie, l’iniqua distribuzione delle ricchezze gli saltano subito all’occhio. Egli è pronto a tutto, sa ascoltare e parlare con una libertà rara nelle persone, e in lui ritroviamo il poeta la cui mente “è cera nel ricevere e marmo nel ritenere”: per esempio, in un primo momento si allontana da una religione che sente troppo austera ma, poi, vive una piena conversione nel ’28 (con La pietà) e nel ’43 ( nella sua Roma occupata); l’adesione religiosa, però, non frenerà mai la sua totale libertà, la sua piena vitalità.

Nell’orecchio egli porterà sempre con sé i canti arabi, i rumori notturni, i gridi degli animali del deserto e nel binomio deserto-Terra Promessa egli mescolerà la sua ricerca e la speranza, una speranza di cui sarà “soldato” e “servitore” per tutta la vita: lascia il “deserto” cercando una soluzione ai problemi ideologici; pensa di trovare una patria nella guerra; sperimenta l’amore maturo in Italia;  si innamora di un altro paesaggio e inizia un tentativo di comprensione profonda dei problemi e dei misteri religiosi; il dolore impregna però il suo cuore e il suo animo, rendendolo “una pietra così dura e così refrattaria” tanto quanto la terra del Carso, e così, il suo animo torna al deserto, alla solitudine, alla nudità.

Nel 1912, Ungaretti lascia l’Egitto e attraversa rapidamente l’Italia per arrivare in Francia. Qui entra in contatto con molti esponenti delle avanguardie artistiche e letterarie, come Boccioni e Palazzeschi.

La prima esperienza di sofferenza che spinge il giovane poeta a sfogarsi silenziosamente su carta è la tragica fine del caro amico Moammed, conosciuto proprio nella terra arida d’Egitto che, però, si era fatta creatrice di una fertile amicizia: egli muore, suicida, a Parigi.

Sentendosi scardinato dalla presenza fissa e portante dell’amico, Ungaretti scrive, scrive per ritrovare i riferimenti vitali, per ristabilire un precario equilibrio che verrà, da ora in poi, continuamente messo alla prova.

In memoria

Locvizza il 30 settembre 1916

  • Si chiamava
  • Moammed Sceab
  • Discendente
  • di emiri di nomadi
  • suicida
  • perché non aveva più
  • Patria
  • Amò la Francia
  • e mutò nome
  • Fu Marcel
  • ma non era Francese
  • e non sapeva più
  • vivere
  • nella tenda dei suoi
  • dove si ascolta la cantilena
  • del Corano
  • gustando un caffè
  • E non sapeva
  • sciogliere
  • il canto
  • del suo abbandono
  • L’ho accompagnato
  • insieme alla padrona dell’albergo
  • dove abitavamo
  • a Parigi
  • dal numero 5 della rue des Carmes
  • appassito vicolo in discesa.
  • Riposa
  • nel camposanto d’Ivry
  • sobborgo che pare
  • sempre
  • in una giornata
  • di una
  • decomposta fiera
  • E forse io solo
  • so ancora
  • che visse

 Il porto sepolto si apre con l’immagine dei due sradicati: così simili eppure così profondamente diversi.

Ungaretti e Sceab erano amici fin dall’adolescenza, fin dai quei tempi passati insieme ad Alessandria d’Egitto, per l’uno patria, per l’altro esilio, fin dai tempi passati  insieme come compagni di studi. Essi si trasferiscono a Parigi, grande capitale e centro di cultura, di progresso e di libertà, e decidono di condividere insieme una stanza d’albergo nel Quartiere Latino. Entrando a contatto con la cultura occidentale, Moammed inizia a trovare insensata la monotona recitazione a memoria del Corano e quel mondo che per la Parigi del tempo sembrava essere eccessivamente superstizioso. Anche l’amico Ungaretti guarda a questo nuovo mondo affascinato, e sente crescere in lui la situazione del déraciné, dello sradicato: egli era stato strappato a quella patria che riconosceva come origine delle grandi culture del passato che egli aveva avuto la possibilità di studiare ma che voleva soprattutto provare a vivere, per sentirsi davvero appagato. Marcel oscilla, si sente come una barchetta su un mare in burrasca, in balia del vento e delle onde che gli nascondono i fari della terra e le stelle del cielo, avvolto da una nebbia che non gli permette di cercare aiuto in amicizie o amore. Se da una parte abbiamo un giovane che sembra essere in vita per caso, dall’altra abbiamo il nostro poeta che combatte contro la solitudine e l’incertezza attraverso la poesia. La resistenza dell’uno, contro il tragico esito inevitabile dell’altro.

Prima poesia de Il porto sepolto, In memoria ci presenta il primo Ungaretti: inizialmente più legato alla cultura francese piuttosto che a quella italiana, Ungaretti eredita da Apollinaire l’assenza della punteggiatura e i silenziosi, infiniti e carichi spazi bianchi; questi espedienti hanno due funzioni: innanzitutto, una funzione semantica, poichè le parole, isolate, scardinate per una breve pausa dal resto della frase, sono libere di esprimere pienamente il loro significato; abbiamo poi una funzione espressiva: vengono a crearsi delle pause di silenzio in cui il lettore può rifugiarsi per rimescolare e ragionare sul testo.

L’andamento intimo e affettuoso, ha il tono di un’orazione funebre: Ungaretti tenta di esprimere la massima solidarietà all’amico che, nel suo corteo, non ha altri se non la proprietaria dell’albergo.

Moammed è morto, suicida, “perché non aveva più patria”, perché nonostante il fatto che “amò la Francia” diventando “ Marcel”, egli “non era francese”, e ormai non era neanche più in grado di vivere sotto il tetto del Corano di famiglia. Non avendo “sciolto il canto del suo abbandono” in vita, Ungaretti è costretto ad accompagnarlo nella strada verso la morte, “al campo di Ivry”. La solitudine trascorsa in vita viene ora riaffermata dolorosamente e drammaticamente nella morte. Forse rimane solo Ungaretti, forse rimane solo lui a ricordarsi dell’amico defunto abbandonato dal resto del mondo: “E forse io solo / so ancora / che visse”. Ungaretti scrive, implorando la poesia di ricordare l’amico, di diffondere il suo ricordo, dimostrando a Moammed, almeno nella morte, quella solidarietà negatagli in vita ma che doveva spettargli in quanto uomo. Questa è proprio la solidarietà leopardiana che ritroviamo nella terza strofa de La ginestra

To be continued

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