Physis: il dominare che sbocciando perdura

Diversi popoli hanno attraversato la Storia, di volta in volta le loro diverse concezioni di natura hanno inciso sull’esperienza di vita delle loro genti. Ma qual è la nostra, e in cosa differisce da quelle dei più grandi popoli del passato?

Per esempio: che significati si svelavano agli occhi degli abitanti dell’antica Grecia quando, dalle scalinate di un tempio, miravano un cielo sgombro incorniciato dalle colonne dorate?  Come appariva loro il verde prospero dei giardini adiacenti o lo scintillio dei canali che solcavano i campi a perdita d’occhio? E cosa pensavano, calata la sera, di quel cielo popolato da nidi di stelle che si riversava sopra le loro teste come un abisso?
E del fiume che li nutriva, del vento che li rinfrescava, della montagna, delle lingue di fuoco che si levavano dai crateri?

Gli antichi greci, per tutto questo avevano una parola: physis, tradotta abitualmente con “natura”.

Ma quale accezione si faceva largo tra le loro menti quando veniva pronunciata?

La domanda appare tanto più rilevante alla luce del fatto che “physis e natura” non sono semplicemente due termini che, essendo uno la traduzione dell’altro hanno per oggetto lo stesso concetto.

Essi al contrario esplicitano due modi differenti di relazionarsi al mondo e lo scarto di significato che non ci permette di identificarli rappresenta l’abissale differenza che separa la concezione di natura incarnata dalla filosofia greca dalla nostra.


Come possiamo allora cercare di comprendere una parola che nella sua estraneità si presenta a noi come intraducibile?

In questa operazione ci viene in aiuto Heidegger, che nell’Introduzione alla metafisica scrive:

“Phýsis è ciò che sboccia da se stesso (come ad esempio lo sbocciare di una rosa), cioè il dispiegarsi aprendosi e in tale dispiegamento fare apparizione, il tenersi in questa apparizione e dimorarvi; in breve: il dominare che sbocciando perdura.”

 
La physis, ci rivela Heidegger, è ciò che sboccia da sè, che si svela spontaneamente, essa è un venire alla luce uscendo dal nascondimento (come una rosa sboccia dal terreno in cui si celava), un permanere nella manifestazione, un dominare che consente al nostro sguardo di osservare tutte le  determinazioni della realtà.
Il perdurare di questa presenza dominatrice è il perdurare dell’essere dell’ente; al contrario, il suo sottrarsi è il non esser più dell’ente: è il ni-ente.

Ma facciamo un passo indietro e chiarifichiamo che cosa si intende con essere ed ente.


L’ ente è il termine che indica ogni determinazione della realtà ( la luna, una formica, tu che stai leggendo, un ippopotamo ecc..); l’essere, invece, è ciò che “entifica” l’ente, ciò che lo fa essere ente e non ni-ente.


Delineato ciò, quando i primi filosofi evocano la parola phýsis, per Heidegger, essi non si rivolgono solo agli enti o all’insieme di essi (come da concezione moderna di natura) bensì anche all’essere stesso: quel principio in grado di far sbocciare gli enti sottraendoli al nulla.


Physis è, quindi, sia la rosa sia quel principio in grado di farla sbocciare, sia l’onda sia il vento grazie al quale solca l’oceano. Essa non è semplicemente ciò che appare, perché ciò che appare è il singolo ente: il suo significato più profondo dimora nell’apparire di ciò che appare.


Detto ciò possiamo azzardare un paragone: il modo di manifestarsi dell’essere/della physis è simile al manifestarsi della luce: essa non manifesta se stessa, ma è il suo rivelarsi che  sottrae all’oscurità le singole determinazioni per portarle alla chiarezza di ciò che è illuminato.

La physis, dunque, è come la luce che porta alla presenza l’ente, ciò che, dimorando presso l’ente ( lo rende pres-ente) lo fa essere e apparire.

È solo tenendo conto di ciò che possiamo dare significato al famoso detto Eracliteo “la natura ama nascondersi”; in quanto a nascondersi non sono i fenomeni, ma il principio in virtù del quale essi appaiono.

E così dietro il cielo sgombro, dietro il verde dei giardini, dietro i canali che solcavano i campi e dietro i nidi di stelle che popolavano il cielo, il greco riusciva a scorgere la presenza di un principio che dimorava in ognuno di essi e che, tenendosi in ognuna delle apparizioni, le svelava sottraendole all’abisso del nulla.  

Da lì a poco albeggiò il giorno in cui alcuni uomini greci, attratti dall’ardua sfida di risolvere l’enigma riguardo la natura esatta del principio, iniziarono a filosofare: Talete arrivò a definire tale principio (archè) con l’acqua, Anassimandro con l’apeiron, Anassimene con l’aria, Eraclito con il fuoco.
Il perché la loro ricerca li condusse proprio questi elementi è tutta un’altra storia.

Ciò che invece urge di essere raccontato è come l’uomo, poco dopo i primi passi compiuti nell’epifania della physis, ha seguito il senso indicato dal mito di Prometeo iniziando ad attribuire all’ente un senso, nella misura in cui gli è utile, per cui all’uomo, e non all’essere che dimora in esso, spetta l’ultima parola sull’ente.

All’ente non corrispose più alcun essere se non al di fuori dell’attività  produttiva dell’essere umano, che in questo modo venne a costituirsi come l’unico autentico essere delle cose.

Come scrive Heidegger in Essere e Tempo:

La foresta è legname, la montagna è cava di pietra, la corrente è forza d’acqua, il vento è vento “in poppa”….. È però possibile prescindere da questa utilizzabilità  e scoprire e determinare la natura come semplice presenza. Ma a questo genere di scoperta la natura resta incomprensibile come ciò che “vive e tende”, ciò che ci assale e ci emoziona nel paesaggio. Le piante del botanico non sono i fiori del campo; le “sorgenti di un fiume”, stabilite geograficamente, non sono la “polla nel terreno”.

Adesso una domanda si leva al di sopra di tutte le altre: cosa si prova a lasciarsi assalire dall’ incomprensibile di ciò che “vive e tende”?

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