MEDICINA, EQUITÀ, DIRITTI – Assistenza sanitaria e diritto: carcere e violazione

Il 4 marzo è iniziato il ciclo di conferenze “Medicina, equità, diritti”, organizzato dal Collegio Borromeo di Pavia, in cui sono stati trattati diversi temi dal punto di vista del diritto alla salute, sancito dall’articolo 32 della Costituzione Italiana.

La prima conferenza ha visto come ospiti Gherardo Colombo, magistrato, Laura Cesaris, docente dell’Università di Pavia, Ilaria Cucchi, attivista per i diritti umani, e Ruggero Giuliani di Medici Senza Frontiere, che hanno analizzato la situazione sanitaria e umana nelle carceri. 

Come primo step per affrontare un’analisi approfondita di questo complesso argomento, è bene chiedersi il significato del termine “salute”. 

La salute è un diritto inalienabile della persona, è parte del suo patrimonio giuridico. Non si limita alla mera assenza di malessere, ma si estende allo stato di benessere, non solo dell’individuo, ma anche e soprattutto della comunità in cui esso vive. 

Il benessere si ottiene con la garanzia dei diritti naturali di ogni persona, nel rispetto degli altri componenti del fitto intreccio di relazioni e interazioni che chiamiamo società. La società è però molto variegata e differenziata e racchiude categorie più deboli e fragili, che devono essere tutelate. 

Per fare ciò, è stata pensata e scritta la Costituzione, che dovrebbe impedire che le condizioni sociali o personali di un individuo creino delle discriminazioni. 

L’articolo 3 garantisce ai cittadini pari dignità sociale; tutti, indipendentemente dalla loro condizione (persona libera o prigioniera) e status sociale, sono considerati ugualmente degni di avere dei diritti. La legge prevede che in alcuni casi, come per esempio per i detenuti, questi diritti siano limitati, in modo da non mettere in pericolo la cittadinanza, ma in nessun modo questi possono essere negati ad un essere umano. Ma nella realtà dei fatti funziona tutto così bene?

Mai come in questo momento, la situazione degradata delle carceri italiane ha fatto riflettere non solo per problemi legati al sovraffollamento e alla salute fisica dei detenuti, ma anche alla loro salute mentale. 

Immagine da “Rapporto Antigone 2020”

Il carcere è un luogo duro, dove chi ci finisce ha pochi stimoli e poche garanzie. L’individuo viene alienato dalla società da cui dovrebbe essere rieducato e in cui, in teoria, dovrebbe essere reintrodotto una volta scontata la pena. Il carcere diventa luogo di vendetta, sofferenza e ripicca, in cui la violenza è l’unica risposta ad altra violenza.

In un luogo così è difficile fare spazio al diritto. I detenuti vivono il distanziamento sociale ogni giorno nonostante le carceri sovraffollate; non possono lavorare, scegliere di impegnarsi in qualcosa e raggiungere un minimo di soddisfazione personale. In carcere, nella maggior parte dei casi, si entra ed esce più di una volta sola, per reati anche peggiori del primo. 

Al posto di essere un luogo di rieducazione e nuovi stimoli, diversi da quelli che hanno portato l’individuo a commettere il reato, il carcere è un ambiente che cambia i detenuti in peggio. Questi vivono ammassati in celle con sbarre di ferro, perdono qualsiasi tipo di privacy e intimità con se stessi, non vivono  il contatto con la realtà al di fuori delle quattro mura che li soffocano e alienano. Di fatto, i detenuti si scontrano con la realtà solo nel momento in cui è lei ad entrare e sconvolgere la piccola bolla che nel carcere si crea. 

Un esempio è stata l’epidemia di SARS-CoV-2, che ha fatto emergere vecchi problemi, a lungo dimenticati, nelle carceri e nuove prospettive su cui costruire un nuovo sistema penitenziario. 

Il covid ha colto tutti impreparati: ospedali pubblici, privati, cliniche, uffici, ristoranti, bar, ma soprattutto noi cittadini, che da un giorno all’altro ci siamo visti costretti a rinunciare alle nostre libertà, in nome del diritto/dovere alla salute. Abbiamo vissuto l’inferno dell’isolamento e della distanza, non solo fisica, ma anche mentale, dalle persone che ci circondano. Abbiamo smesso di lavorare, studiare, uscire, viaggiare e visitare nuove terre e raccogliere esperienze di vita. Abbiamo perso la forza di andare avanti e di immergerci in nuovi progetti, ma soprattutto abbiamo capito l’importanza della libertà che avevamo. 

Ma questa situazione ci ha resi più consapevoli di una situazione che tutti ignoriamo e consideriamo troppo distante: il carcere e i suoi “ospiti”.

Fare un paragone tra l’isolamento domiciliare dovuto al COVID e quello dovuto a una pena da scontare in carcere è alquanto azzardato, in quanto le due situazioni sono completamente diverse, ma può rendere una vaga idea di cosa si prova a vivere rinchiusi, isolati, allontanati dalla famiglia e dalle persone care. C’è da chiedersi se sia davvero utile un carcere strutturato in questo modo. 

Un grosso problema delle carceri rimane il sovraffollamento, che, sebbene si sia ridotto dal 2019, si trova ai primi posti in Europa. 

Il sovraffollamento non è solo non avere lo spazio fisico necessario per vivere, ma è anche un problema dal punto di vista del lavoro e delle altre opportunità che vengono offerte ai detenuti. Ci sono tanti detenuti e poco personale, troppi detenuti e troppe poche attività dedicate alla loro riabilitazione fisica, personale e sociale.

In carcere non si fa attenzione alla salute, non solo fisica, in quanto le prestazioni sanitarie non bastano, ma anche mentale. Un esempio sono i rifugiati, stranieri e richiedenti asilo che occupano le celle delle nostre carceri, dopo aver subito chissà quali traumi fisici e psicologici. Lo stato di detenzione non è adatto a queste persone, se si tenta di recuperarle. Bisogna quindi trovare delle misure alternative, che risultano essere non solo meno dispendiose in termini di denaro, ma anche più efficaci.

L’uomo è un animale sociale, non è fatto per la vita solitaria; ha bisogno di contatto, e mai come in questo momento ce ne stiamo rendendo conto. In alcune carceri è stato ammesso l’uso del cellulare per le videochiamate alle proprie famiglie. Questa misura ha permesso di accorciare la distanza tra “noi” e “loro” e di iniziare un processo di informatizzazione delle carceri che potrebbe portare a numerosi vantaggi, soprattutto sul piano educativo. Forse il totale isolamento dei detenuti dalla società non è così utile come si crede. Un detenuto, che non ha commesso crimini gravissimi, è destinato al reintegro in società, quindi perché non permettergli un percorso di rieducazione a stretto contatto con la società stessa?

Per quanto la pandemia sia stata devastante per tutti, ci ha fatto riflettere molto sul significato dei nostri diritti e doveri nei confronti di noi stessi e degli altri. Abbiamo iniziato a comprendere il vero significato dell’essere società e della dipendenza dal prossimo: i problemi che apparentemente non riguardano l’individuo in prima persona, finiscono per influenzare la sua vita e il suo futuro. È di nostro interesse e competenza avere un sistema penitenziario che funziona bene. È fondamentale ripensare ad un carcere che garantisca il pieno sviluppo della persona umana e che ne tuteli i diritti, come sancito dalla Costituzione, e per farlo c’è bisogno dell’aiuto di tutti, come società unita e sinergica.

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