L’ingiustizia di Mahsa Amini

Qualche giorno fa ha attirato il mio interesse la storia di una ragazza, o meglio la storia della sua morte.

Soli 22 anni, la mia stessa età e subito la sua giovinezza ci ha avvicinate. Mi riferisco a Mahsa Amini anche se questo non era il suo vero nome, il suo vero nome era Jina Amini, un nome curdo che significa “vita”. (Già il fatto che le sia stato impedito di avere un nome piuttosto che un altro la dice lunga sui suoi diritti).

Ebbene sì l’Iran possiede una lista di nomi e vieta ai propri cittadini di chiamare i figli con nomi al di fuori di questa lista. “I nomi che rappresentano il nazionalismo etnico o l’orgoglio regionale sono vietati, ad eccezione dei nomi persiani e islamici” spiega Himdad Mustafa. Perciò nei documenti ufficiali era registrata come Mahsa, un nome persiano consentito dalla Repubblica Islamica, ma per la famiglia era Jina.

Il 13 settembre stava andando in vacanza con la famiglia quando venne arrestata all’ingresso dell’autostrada dalla “Pattuglia dell’Orientamento”, la polizia per la morale iraniana. Al fratello dissero che la stavano portando in un centro di detenzione per essere sottoposta a un “breve corso sull’hijab” e che sarebbe stata rilasciata in un’ora. Dopo due giorni di coma all’ospedale Kasra di Tehran è deceduta in seguito alle ferite riportate. I medici ritengono che avesse subito una lesione cerebrale con fratture ossee, emorragia e edema cerebrale oltre al visibile sanguinamento dalle orecchie e lividi sotto gli occhi.

Violenza contro le manifestazioni

A 40 giorni di distanza dalla morte in custodia alla polizia di Mahsa Amini, durante una commemorazione in suo onore, le forze di sicurezza iraniane hanno continuato ad usare illegalmente la forza contro i manifestati.

Il 26 ottobre a Saqqez, nel Kurdistan, hanno fatto esplodere dei gas lacrimogeni e sparato pallini di metallo per disperdere le migliaia di persone che si erano riunite. Quella sera sono state uccise due persone: Mohammad Shariati e Afshin Asham.

Il 27 ottobre a Mahabad, nell’Azerbaigian occidentale, le forze di sicurezza hanno usato armi da fuoco contro dei protestanti, riunitisi per l’uccisione di un manifestante, e in questa occasione ci sono state altre tre vittime: una donna di nome Kobra Sheikheh e due uomini Zaniar Aboubekri e Shahou Khezri. Almeno un altro manifestante, di cui si stanno accertando le generalità, è stato ucciso lo stesso giorno a Baneh, nel Kurdistan.

Le autorità iraniane per mantenere il loro potere e cercare di fermare le rivolte giovanili stanno utilizzando ogni mezzo a loro disposizione.

“Ancora una volta lo sconsiderato e illegale uso delle armi da fuoco, da parte delle forze di sicurezza iraniane, contro i manifestanti rivela il tragico elevato costo della mancanza d’azione internazionale. Chiediamo a tutti gli stati membri del Consiglio Onu dei diritti umani di convocare immediatamente una sessione speciale sull’Iran e di assumere iniziative determinanti, come sollecitato anche dal Relatore speciale Onu sulla situazione dei diritti umani in Iran”, ha dichiarato Heba Morayef, direttrice di Amnesty International per il Medio Oriente e l’Africa del Nord.

Altre vittime

Oltre all’oppressione delle donne e ragazze di cui Mahsa è solo un esempio, molte altre persone vengono discriminate in Iran. Non è un caso, infatti, che la maggior parte delle vittime durante le repressioni sia beluca, una minoranza etnica del paese.

Un episodio particolarmente eclatante per il numero di vittime è avvenuto il 30 settembre o “venerdì di sangue”, così chiamato per la sua brutalità.

Di fronte alla stazione della polizia di Zahedan, al termine della preghiera del venerdì, gli agenti in borghese delle forze di sicurezza iraniane hanno iniziato a sparare dai tetti mirando alla testa, al petto e alla schiena delle persone, alcune delle quali stavano ancora prendendo parte alla funzione religiosa.

In quel giorno e nei successivi si contano 82 vittime (fra le quali anche minorenni) nell’intera provincia, che si aggiungono alle 52 del periodo precedente tra il 16 e il 25 settembre.

Le autorità iraniane continuano a mentire sui fatti a dichiarando un numero inferiore di vittime rispetto a quelle reali e attribuendo la colpa su terroristi di governi stranieri.

Rapporto Amnesty International

-Libertà d’espressione, associazione e riunione: represse;

-Tortura e altro maltrattamento: in maniera diffusa e sistematica, soprattutto durante gli interrogatori;

-Discriminazione: di donne e ragazze, persone lgbtq+, minoranze etniche, minoranze religiose;

-Pena di morte: non solo per i reati più gravi

-Impunità: le autorità continuano a nascondere il numero di vittime

Questi sono solo alcuni dei titoli dei punti trattati nel rapporto 2021/2022 di Amnesty International, per la Repubblica Islamica dell’Iran.

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