Il settantesimo Festival di Sanremo è un trionfo di ascolti e spettacolo.
Amadeus e Fiorello vicini ad un meritatissimo bis.
di Giulio Carazzolo
“Fai rumore”. Non ci poteva essere titolo migliore, col senno del poi, per la canzone vincitrice del settantesimo Festival di Sanremo. Infatti, rumori e malumori vari, polemiche e discussioni si sono susseguiti per mesi da quando Amadeus è stato nominato presentatore e direttore artistico. Cantanti esclusi che protestano, superospiti che si autoescludono (Bellucci, Salmo…), giornalisti che polemizzano per la pubblicazione dei Big in gara in esclusiva a “Repubblica” e, infine, la rivolta femminile per le frasi di Amadeus sulle donne e il “passo indietro”. Tant’è che la sera del 4 febbraio tutti abbiamo pensato: “Finalmente inizia sto Festival: non se ne può più!”.
E proprio quando sarebbe bastato poco a stancare definitivamente un pubblico esausto da tutti questi mesi di polemiche, ecco che il Festival mette tutte le cose a posto. Amadeus e Fiorello, che da grande showman qual è ha dato tantissimo a questo Sanremo, divertono e si divertono come due adolescenti. Un clima quasi da villaggio turistico, che si contrappone a quello teso che ha preceduto la manifestazione canora, ma mai banale, impreziosito da momenti molto spontanei come lo spruzzo d’acqua di Fiorello sulla spalla di Amadeus, da imitazioni improvvisate (spassosissima quella di Maria De Filippi) e addirittura da un duetto sulle note di Gianni Morandi. Anche le co-conduttrici hanno saputo stare al gioco, comprese le spiritose Emma D’Aquino e Laura Chimenti provenienti dal Tg1, alternando momenti leggeri, come il tormentone Amadinho di Diletta Leotta, ad altri davvero toccanti. Mi riferisco al monologo di Rula Jebreal, che oltre a trattare il tema assai doloroso della violenza sulle donne, ha permesso di apprezzare ancora una volta il testo di due capolavori della musica italiana come “La Cura” di Franco Battiato e “La Donna Cannone” di Francesco De Gregori. Leggermente più defilata, oltre che in certi momenti molto poco spontanea (leggeva spesso a testa bassa…), la presenza di Francesca Sofia Novello. Ottimo, invece, il dosaggio delle esibizioni di Tiziano Ferro, che ha preso parte a tutte e cinque le serate ed è stato protagonista, con Massimo Ranieri, di un “Perdere l’amore” da brividi.
Ma guai a pensare che il settantesimo Festival della canzone italiana sia stata solo una festa tra amici. Molti, infatti, sono stati i momenti di livello culturale e nazional-popolare assai elevato. Cito, a tal proposito, il monologo di Roberto Benigni sul Cantico dei cantici quale “canzone delle canzoni”. Sono convinto che abbia suscitato la curiosità di molti telespettatori, pur non essendo stata, forse a causa dei tempi televisivi imposti dal Festival, la miglior performance del grande Benigni. Ho molto apprezzato, poi, il tributo ai cent’anni di storia dell’Arma dei Carabinieri, che probabilmente non ringrazieremo mai a sufficienza per tutto quello che fanno per la sicurezza dei cittadini. Mi ha emozionato molto, infine, la testimonianza di Paolo Palumbo, malato di SLA che non ha perso il sorriso e la voglia di fare musica: un esempio di forza caratteriale per tutti noi.
Ma veniamo alle canzoni. Quest’anno devo dire che il numero di quelle che sono riuscite a colpirmi è di molto superiore alla media. Gli scorsi anni due, massimo tre. Stavolta ben nove: Finalmente io di Irene Grandi, Viceversa di Francesco Gabbani, Carioca di Raphael Gualazzi, Eden di Rancore, Ho amato tutto di Tosca, Ringo Starr dei Pinguini Tattici Nucleari, Gigante di Piero Pelù, Il sole ad est di Alberto Urso, Fai rumore di Diodato. Concedetemi di soffermarmi su alcune di queste. Prima di tutto, i miei personali complimenti a Francesco Gabbani che, con il brano presentato in gara, ha dimostrato a tutti che non è solo “quello della scimmia”, ma sa emozionare con un brano dal testo e melodia molto scorrevoli, privo di qualunque aggiunta coreografica. Non sufficientemente apprezzato è stato secondo me Rancore, il cui brano ha avuto il premio per il miglior testo, ma avrebbe meritato di più per l’interpretazione e per i temi trattati, perciò invito chi non va oltre la lettura delle prime tre posizioni della classifica sanremese ad andarselo a riascoltare. Idem Raphael Gualazzi. Hanno conquistato la simpatia del pubblico, invece, i Pinguini Tattici Nucleari con un pezzo assai coinvolgente che penso farà ballare tutti per i prossimi mesi, ma senza scimmie o vecchie (e nemmeno pinguini…) e di questo sono molto felice, motivo per cui ho deciso di premiarli. Sulla canzone vincitrice non ho di che aggiungere ai commenti che sono già emersi nell’immediato post Festival: la vocalità dell’interprete ha certamente valorizzato un brano molto intenso, anche se dal testo, a mio modesto parere, non sempre all’altezza della base. Sono soprattutto contento per Diodato in quanto cantante, dal momento che non è passato attraverso i talent come fanno in moltissimi al giorno d’oggi, ma è arrivato al top con la sana e assai formativa gavetta e si è quindi meritato la vittoria della manifestazione canora italiana per eccellenza. Le canzoni rimanenti, che non rientrano nelle mie nove preferite, hanno il mio più grande rispetto per aver preso parte al Festival nell’anno del suo settantesimo compleanno, ma le ritengo manchevoli in uno o più aspetti in confronto a queste. Alcune per il fatto di non aggiungere o togliere nulla rispetto al repertorio dell’artista in gara. Per la serie “sono canzoni diverse ma sembrano sempre la stessa”. Altre perchè semplicemente non incontrano i miei gusti musicali.
C’è chi chiede a gran voce un mio commento su Achille Lauro. Pronti. Così come ho criticato la scimmia di Gabbani nel 2017, la vecchia de “Lo stato sociale” nel 2018 e altri espedienti atti a distogliere l’attenzione dalla musica e dalla canzone, allo stesso modo non sono d’accordo con questa scelta di portare in scena dei personaggi, seppur storicamente importanti, con costumi stravaganti sul palco del Festival della canzone italiana. In gara sono le canzoni, quindi preferirei che l’attenzione fosse soltanto sui brani, non sul contorno.
E ora che ho tessuto le lodi, meritatissime, al buon Amadeus e a tutto il suo team di lavoro, è venuto il momento di una piccola, ma doverosa, tiratina d’orecchie. Perché c’è sempre qualcosa che si può migliorare. Prima di tutto gli orari: quest’anno c’era la scusa della celebrazione dei settant’anni di Festival, ma l’anno prossimo non accetterò un orario di chiusura oltre l’una di notte, altrimenti si dà l’impressione di andare alla ricerca anche delle virgole di share. Perchè, si sa, in seconda serata, con un bacino di pubblico più ristretto, è più facile. Poi la gestione delle ospitate. In base a cosa ai “Ricchi e poveri”, ad Albano e Romina e ad Emma si concede quasi mezz’ora di palco e a Zucchero e Massimo Ranieri soltanto un quarto d’ora o poco meno? Mi aspettavo, poi, visto che del ritorno degli ospiti internazionali se ne parlava da mesi, qualche ospitata in più e più di grido. Per quanto riguarda Bugo e Morgan, invece, mi dispiace per Amadeus, perché è stato un momento, seppur durato poco nel live, di tensione. Il Festival, rispondendo a chi parla in tal caso di “scenata acchiappa-ascolti”, non ne aveva bisogno visto il risultato già record (54% di share medio sulle cinque serate) in termini di riscontro di pubblico. E se mi chiedessero: “Vorresti un Amadeus- Fiorello bis?”. Io certamente risponderei di sì.