Guida a Errori Bizzarri: i paradossi

Ci sono situazioni, oggetti o semplicemente frasi che sembrano abitare in un mondo in cui le regole della logica sono sospese e il nostro modo di ragionare si ingarbuglia in un circolo vizioso. Questi “strani anelli”, i paradossi, devono il loro fascino al loro aspetto spesso innocuo, che si risolve in un’imprevista contraddizione: ogni paradosso è come una piccola storia dal finale a sorpresa. Il paradosso “per eccellenza” è forse quello di Epimenide (o “del mentitore”), poeta cretese che si dice abbia un giorno affermato: “Tutti i cretesi sono bugiardi”. Una versione più concisa dell’enunciato è: “Questa frase è falsa”. Quello che accomuna i paradossi è la loro “indecidibilità”, il fallimento dei nostri criteri di giudizio: siamo inclini a pensare che una frase debba essere o vera o falsa, che la negazione di un enunciato vero sia una falsità (provate con la frase all’inizio di questo articolo) e in generale applichiamo con molta disinvoltura il “senso comune” a processi infiniti e strutture ricorsive. Non ci sarebbe quindi da stupirsi se davanti a un paradosso veniamo ingenuamente presi alla sprovvista, ma in fondo è proprio la meraviglia da esso suscitata che lo rende divertente.  

Proprio questa caratteristica giocosa rende i paradossi degli ottimi mezzi per presentare in maniera semplice argomenti complessi di varie discipline, come la matematica o la fisica. Sono celebri gli “esperimenti mentali” di cui si servivano i padri della meccanica quantistica per descrivere la controintuitività della nuova scienza (il paradosso dei gemelli e il gatto di Schrödinger solo per citarne alcuni). Un ottimo autore per saperne di più sui paradossi è sicuramente Martin Gardner, curatore per molti anni della rubrica “Giochi matematici” per “Scientific American”.  Gardner sostiene che esistono quattro tipi di paradossi: (1)

  1. Un’affermazione che sembra falsa, ma in realtà è vera
  2. Un’affermazione che sembra vera, ma in realtà è falsa
  3. Un ragionamento che sembra impeccabile, ma conduce a una contraddizione (noto come fallacia)
  4. Un’affermazione di cui non si può decidere la verità o la falsità

Una caratteristica accessoria dei paradossi, evidente in quelli riportati sopra, è l’autoreferenzialità: la capacità di un enunciato (una frase, un teorema o altro) di parlare in qualche misura di se stesso condurrà a risultati interessanti. Nonostante i paradossi possano apparire come un ostacolo al progresso della conoscenza, in realtà operano come dei campanelli d’allarme che segnalano un malfunzionamento del “sistema formale” che stiamo adoperando nella nostra ricerca. Non ci aiutano indicando la strada giusta, ma mostrandoci che siamo su quella sbagliata: un buon esempio è quello della scoperta delle geometrie non euclidee (i lettori matematici amanti della precisione sono pregati di saltare almeno il prossimo paragrafo).

Euclide aveva stabilito cinque postulati a fondamento della geometria piana, ma l’ultimo aveva sempre suscitato sospetti perché meno intuitivo degli altri (una formulazione equivalente: se due rette non si incrociano mai, sono parallele). All’inizio del XIX secolo i matematici stavano tentando di dimostrare il quinto postulato partendo dagli altri quattro. La strada più battuta consisteva nell’assumerlo come falso e provare che ciò portava a una contraddizione, come la costruzione di triangoli con somma degli angoli interni diversa da 180°. Dopo vari buchi nell’acqua, si comprese la natura del problema: le conclusioni raggiunte in realtà erano solo percepite come paradossali, ma in realtà erano perfettamente legittime. Questa scoperta spianò la strada allo studio di spazi “curvi”, essenziali per la formulazione della Relatività Generale.

Viene naturale pensare che la scoperta “da paradosso” in fondo sia un caso limite del normale metodo scientifico, che in nuce consiste nel capire “Come mai la mia meravigliosa teoria non funziona?”. Finora tuttavia non sembra che i paradossi possano interessare a qualcuno all’infuori di un ricercatore o un divulgatore scientifico annoiato. Come vedremo, ci riguardano più di quanto possiamo pensare. Partiamo dalla logica e dai sistemi formali, e da un eccentrico gioiellino da biblioteca.  

“Gödel, Escher, Bach – un’eterna ghirlanda brillante” di Douglas Hofstadter è un libro che si propone di capire come funziona il pensiero umano, e di come sia possibile utilizzare le conoscenze così acquisite per costruire un’intelligenza artificiale. Tra parallelismi con canoni musicali, quadri raffiguranti città impossibili e citazioni al mondo di Lewis Carroll (e della cultura Zen) Hofstadter cerca di capire come un garbuglio di neuroni possa dare origine a individui molto aggrovigliati, spesso servendosi di immagini paradossali. Il discorso razionale segue delle regole precise, ed è dunque utile studiarlo partendo da “sistemi formali” più semplici. Un sistema formale è un insieme di regole con cui è possibile manipolare verità fondamentali (“assiomi”) per dimostrare degli enunciati (“teoremi”): l’aritmetica è un ottimo esemplare di sistema formale.

Il logico Kurt Gödel , vissuto nel XX secolo, inventò un sistema di traduzione per esprimere gli enunciati dell’aritmetica come numeri naturali. Così, l’aritmetica poteva essere sfruttata per riferirsi ai suoi stessi teoremi. Egli si servì di questo stratagemma per enunciare il suo Teorema di Incompletezza:

 “Tutte le assiomatizzazioni coerenti dell’aritmetica contengono proposizioni indecidibili”

Questa versione (semplificata) dell’enunciato del Teorema contiene al suo interno una versione del paradosso di Epimenide. All’interno dell’aritmetica e di sistemi “simili” è possibile esprimere una frase come: “Questa frase non può essere dimostrata servendosi delle regole di questo sistema”. Una tale proposizione (vera) è indecidibile, proprio come il paradosso del mentitore, e un sistema “abbastanza potente” da poter esprimere proposizioni su se stesso è incompleto. Questo è il cuore della tesi di Gödel: l’autoreferenzialità conduce a un paradosso.

Il lavoro di Gödel fu accompagnato in quegli anni dalle opere di informatici (Turing su tutti), psicologi e filosofi che concentrarono i loro sforzi nella comprensione della mente umana e di un suo possibile simulacro meccanico. L’impalcatura teorica che regge l’IA non sarebbe nata senza l’impulso iniziale di un matematico la cui opera apparentemente limitava le potenzialità del pensiero razionale.

L’ultima domanda a cui rispondere ci riguarda direttamente: in quale misura siamo simili a un calcolatore? In GEB si cerca di mostrare come il cervello umano sia caratterizzato da strani anelli: i singoli neuroni sono organizzati in una scala gerarchica di agglomerati sempre maggiori, che rappresentano concetti e funzioni via via più astratte dall’attività della semplice cellula; è tuttavia possibile che il livello base venga influenzato dal più alto, completando il ciclo. Sicuramente, come  afferma Hofstadter, (2)

“[Un programma in grado di comporre musica] dovrebbe capire la gioia e la solitudine di una notte fredda e ventosa, il desiderio struggente di una mano amata, […], la stanchezza della vita, l’angoscia e la rassegnazione […] soltanto da questo nasce il significato della musica.”

Siamo molto più ingarbugliati di un banale calcolatore affetto da patemi gödeliani.  Se la capacità di riflettere su noi stessi ci è congenita nel “Penso, (quindi sono: corollario lasciato per esercizio al lettore)”, non possiamo che stupirci degli innumerevoli paradossi che abitano in noi, e apprezzarli.

Bibliografia e sitografia

(1) M. Gardner, “Ah! Ci sono! Paradossi stimolanti e divertenti”, Nicola Zanichelli Editore, Bologna, 2008, pag. 5

(2) D. R. Hofstadter, “Gödel, Escher, Bach – un’eterna ghirlanda brillante”, Adelphi, Milano, 1984, pag. 732

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